Per il suo primo romanzo, Emma Cline punta sulla storia nera di un’adolescente “invisibile” in cerca di sé stessa.

Emma Cline – Le ragazze -Einaudi
“Le ragazze annuncia l’arrivo di una voce formidabile nella narrativa americana”.
Jennifer Egan
di CasaLibri
Salutato da buona parte della critica come “l’esordio letterario dell’anno”, “Le ragazze”, della ventisettenne Emma Cline, è uno di quei romanzi che si lasciano divorare fin troppo rapidamente. Il libro (Einaudi, traduzione di Martina Testa) narra la storia di Evie Boyd, una quattordicenne alla costante ricerca di qualcuno che sappia apprezzarla. Figlia di genitori separati e praticamente inesistenti, Evie tenterà senza successo di riconoscere un accenno di approvazione nelle amiche di scuola, nei ragazzi e persino nell’amante del padre. Un percorso disperato e doloroso che si risolverà solamente nell’incontro con Suzanne, una delle donne della comune -siamo nella California del 1969- in cui la giovane protagonista del racconto troverà rifugio e considerazione. Trascinata in un vortice di sesso, droga e violenza, Evie riuscirà a scoprire la sua identità solo dopo aver sfiorato l’orrore dell’omicidio.
“Quella fu la prima volta che vidi Suzanne: i suoi capelli neri ne segnalavano, anche da lontano, la diversità, il sorriso che mi aveva rivolto era diretto e aveva un’aria di valutazione. Non riuscivo a spiegarmelo, lo strappo che avevo provato guardandola. […] E cosa aveva visto la ragazza guardando me?”
Piccole donne crescono nella famiglia Manson: le ragazze di Emma Cline
“Le ragazze”, a ben vedere, non è altro che la storia di un’adolescente alla ricerca di sé stessa. In un recente articolo, Christian Raimo definisce il libro “un traumatico romanzo di formazione“. E badando all’evoluzione del personaggio, dalla fragile insicurezza dell’infanzia alla fragile consapevolezza dell’età adulta, gli elementi caratteristici del genere sembrano esserci tutti.
La Evie di Emma Cline, al pari di tante sue coetanee, è una quattordicenne traumatizzata dalla disintegrazione del matrimonio dei suoi genitori, incapace di riconoscersi in un presente che, in un momento imprecisato della sua vita, si è fatto drasticamente diverso dal suo passato. Intorno e dentro di lei, tutto cambia rapidamente. Il legame con l’amica d’infanzia, le aspettative nei confronti dei ragazzi e persino il suo corpo sembrano prendere forme nuove e tormentate. Ciò che muove Evie, in perfetta analogia con la gran parte dei ragazzini di ogni epoca e latitudine, è l’ossessiva ricerca di attenzione da parte delle persone che le ruotano attorno o che, semplicemente, incontra per strada.
“Mi resi conto che un minimo dell’attenzione si riversava anche su di me. Fu uno shock ricordare quella sensazione elettrizzante, sia pure per interposta persona. L’effetto che faceva essere oggetto di desiderio”.
Le premure che la madre le riservava prima della separazione sono svanite:
“Era scomparsa la madre che a ogni cambio di stagione si assicurava mi comprassi della biancheria intima nuova, la madre che un tempo mi arrotolava i calzini bianchi con la stessa delicatezza che si riserva alle uova. Che cuciva per le mie bambole pigiamini uguali al mio, con tanto di identici bottoni di madreperla. Adesso si preparava a prendersi cura della sua vita con la diligenza di una scolaretta davanti a un problema di matematica difficile”.
Il padre, perso nella patetica relazione con una donna molto più giovane, è scomparso dalla sua esistenza. E, in generale, la percezione che ha della la famiglia è quella di un luogo di nessun conforto, “che ci faceva sentire tutti vittime dello stesso complotto”.
Non va meglio nemmeno con gli uomini. I ragazzi sembrano ignorare Evie persino quando finge di inciampargli addosso o, nella migliore delle ipotesi, quando si risolve a prendere una qualsiasi iniziativa, si limitano a tentare nei suoi confronti dei vaghi e svogliati approcci. E se l’attenzione che la quattordicenne reclama a più riprese nel racconto si traduce spesso nell’attesa innocente di uno sguardo che si posi su di lei, è la paura del giudizio degli altri a rivelare ancora una volta la sua malcelata fragilità.
“A quell’età ero, prima di tutto, una cosa da giudicare, il che in ogni rapporto alterava le dinamiche di potere a favore dell’altra persona”.
Un meccanismo crudele e masochistico al quale Evie, più di altri, non sa e non può sottrarsi. Nel disorientamento della sua età e della sua condizione di figlia di genitori separati e ragazza “invisibile”, specchiarsi nello sguardo altrui le appare come l’unico modo per potersi osservare da vicino e trovare una definizione di se stessa.
“Nessuno mi aveva mai guardata davvero prima di Suzanne, perciò da un certo momento in poi era stata lei a definirmi”.
In una recensione scritta per “La stampa”, Michela Murgia rintraccia una similitudine – forse più corretto parlare di legame- tra le “Piccole donne” di Louisa May Alcott e “Le Ragazze” di Cline. Il gioco dei paragoni è un esercizio sempre valido, affascinante ma anche complicato. Di declinazioni sul tema dell’adolescenza ne sono piene le librerie del mondo ma ci sono almeno due aspetti fondamentali che rendono il lavoro di Emma Cline molto particolare. Il primo è puramente formale: “Le ragazze” è scritto alla “perfezione”. Il secondo, decisamente più caratterizzante, riguarda il contesto nel quale l’autrice decide di calare la sua protagonista: una storia nera, ispirata alla brutale vicenda della “famiglia Manson“.
La problematica Evie Boyd, con tutta la sua carica di cinismo e disincanto, non si confronta con il moralismo – in fin dei conti a portata di mano – di una soffocante famiglia americana degli anni ’70 (in questo caso il riferimento va a “Le vergini suicide”, indicato da Raimo come remoto “fratello maggiore” de “Le ragazze”), ma con l’orrore di una sanguinaria comune organizzata attorno a un leader carismatico. Solamente in un ambiente simile, distante anni luce dalla – terribile – ordinarietà della famiglia March di Alcott o delle ragazze Lisbon di Eugenides, Evie ha la possibilità di comprendere la sua vera natura. Un’agnizione finale che, inevitabilmente, si realizza attraverso lo specchio degli occhi dell’amata Suzanne. E’ infatti proprio nello sguardo di quella ragazza sbandata e crudele, la sola che l’avesse mai guardata davvero, che Evie, a distanza di anni, riconoscerà infine la sua spaventosa identità.
Perfetto, quasi deludente: “Le ragazze”
Emma Cline scrive benissimo. La sua prosa è precisa, rotonda e scorrevole: in una parola, perfetta. Sull’argomento sono state spese riflessioni a profusione, tutte più o meno concordi nel giudicare positivamente l’impeccabile stile dell’autrice. Cline domina saldamente gli strumenti del mestiere: il lessico è ben studiato, la struttura del libro è equilibrata in tutte le sue parti, il protagonista coerente in ogni aspetto e il ritmo è quello giusto per catturare il lettore. Eppure, terminata l’ultima pagina, resta una punta di delusione.
Per poter apprezzare lo splendore di Celine, forse l’autore meno “perfetto” del ventesimo secolo, è necessario scendere ben oltre la superficie martoriata della sua scrittura. Con Cline, alla quale va comunque il merito di aver tirato fuori dal cilindro dei suoi pochi anni un’opera di tutto rispetto, è sufficiente scivolare sul bordo di una meravigliosa evidenza. L’impressione, però, è che tutto ciò che si agita -o che potrebbe agitarsi- al di sotto di un limite tanto levigato finisca per rimanere inevitabilmente imbrigliato proprio nella sua stessa, sconvolgente precisione. La resa, in termini di prodotto editoriale, è senza dubbio eccezionale. E’ inutile dire che una “storia” accessibile e d’impatto si vende molto meglio di un testo faticoso o di “Morte a credito”. Questione di gusti, nulla da eccepire. Ma quando Alessandro Baricco, riferendosi al lavoro di Cline, afferma che “non è questa perfezione quello che davvero cerchiamo in un narratore”, è difficile contraddirlo. E’ vero, Emma Cline, con il suo conto in banca milionario e il suo fulmineo successo, è poco più grande del personaggio del suo romanzo. Ha tempo e talento per migliorare ancora e superarsi. In fin dei conti, come sottolinea Claudia Durastanti, “Cline scrive così perché ha 27 anni”. Esattamente l’età che aveva Dino Buzzati quando scrisse “Barnabo delle montagne”. Insomma, non è poco ma non è nemmeno un miracolo.
Concordo sul pizzico di delusione finale, mi ha quasi disturbato l’eccesso di “perfezione”, nonostante il libro si legga tutto d’un fiato. Il che però non sempre è indice di qualità. Certo il romanzo è avvincente, come deve essere per vendere parecchio. Mi domando però se, invece che nella famiglia Manson, la protagonista fosse finita in un’altra magione, come sarebbe andata. Ma questa è un’altra storia.
Ciao Grazia, grazie per il commento. La tua è la sintesi perfetta di quello che cercavo di scrivere. Probabilmente, senza il tema “Manson” il romanzo non avrebbe avuto forza né successo.