Letture

Luca Bernardi – Medusa: “Storia di una mente in liquefazione”

Un romanzo graffiante ed elettrico che percorre le strade imprevedibili della follia ” (Tunué).

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Luca Bernardi – Medusa – Tunué

“Questa <<Medusa>> ha il potere di pietrificare il linguaggio”

Paolo Sortino, Il Giornale


di CasaLibri

Romanzo di formazione, noir, racconto post-adolescenziale o di fantascienza: trovare un genere letterario nel quale incasellare un libro come “Medusa” è una impresa pressoché impossibile. Il lavoro d’esordio del venticinquenne Luca Bernardi, edito da Tunué nella collana curata da Vanni Santoni, è infatti materia talmente viva da non adattarsi per nulla alle solite, asfissianti classificazioni di genere. “Medusa”, per usare le parole dello stesso autore, è soprattutto la storia di “una mente in stato di liquefazione“. Un ventenne ossessionato dagli extraterrestri e dall’idea di compilare un “Dizionario semiologico abissale” trascorre le vacanze estive con i genitori, sulla costa tirrenica. Gioca a ping-pong, fantastica sulle ragazze, “commercia” con gli alieni e tenta faticosamente di tenere a bada la sua psicosi. Durante una festa in casa dei ricchi zii, perso ormai il controllo, decide di partire verso la riviera romagnola in compagnia di tre amici d’infanzia cinici e irrequieti. Una fuga, o per meglio dire “un autoinseguimento” che finirà inesorabilmente per mettere il giovane protagonista a confronto con i suoi peggiori fantasmi.

“Ti insegniamo noi! Noi chi? Le amichette culi dislessici? I compagnucci analfabeti? Annaspo all’idea di quali orrori possano sprigionarsi da tre lettere. Di ogni parola sempre ho sospettato, diceva il mio mentore Scardanelli, ma su tutte quelle che risucchiano i più nell’uno. Noi amici, noi nemici, noi buoni, noi cattivi, noi neri, noi bianchi, noi maschi, noi femmine, noi scemi, noi svegli, noi padri, noi figli? Noi scarafaggi?”


Medusa: la follia in “un parallelepipedo di alberi cotti”

Inutile tentare di resistere al talento di Bernardi, o peggio provare a opporsi all’incedere allucinato del suo romanzo. Per apprezzare “Medusa” è necessario mettere da parte qualsiasi pretesa di dominare un testo per molti versi oscuro. Spaccarsi la testa per ricucire il narrato, sforzarsi per colmare spazi ricavati appositamente per restare vuoti,  fermarsi -vocabolario alla mano- ogni volta che si inciampa in un termine scientifico o in una parola dal registro linguistico fuori portata sarebbe superfluo oltre che controproducente. La storia raccontata in “Medusa” è chiara quanto basta e avvincente nella stessa identica misura. In fin dei conti, superate le prime pagine, saranno ben pochi i lettori ancora interessati a scoprire se il protagonista è davvero in contatto con gli alieni, se c’è un assassino o se il “Dizionario Semiologico Abissale” sarà mai dato alle stampe. Nel libro di Bernardi ciò che appassiona è la mente in corto circuito del suo personaggio; quello che stupisce e lascia a bocca aperta è la forma scelta per cacciare in un “parallelepipedo di alberi cotti” una cosa così pulsante e incomunicabile come la follia.

“Come capirsi con entità adoperanti linguaggi tarati su parametri diversi? Come interagire con esseri che avendo imboccato altri sentieri per spigolare appetiti non si sarebbero serviti dell’espressività?”.

Se, nella finzione, il “dizionario” al quale lavora il protagonista si occupa “di trasporre il linguaggio umano nelle forme utilizzate da specie quali persici, mantidi e pleiadiani”, l’esperimento di Bernardi consiste nel tradurre l’esperienza di un individuo schizofrenico in una serie di messaggi più o meno ricevibili dai lettori. Un esercizio di difficile soluzione che l’autore risolve scardinando gran parte delle tradizionali regole narrative per disseminare il testo di continui salti temporali, digressioni,  parentesi lasciate spesso aperte, e frizioni tra riferimenti colti, neologismi e gergo adolescenziale. L’effetto è impressionante. La sensazione è quella di condividere davvero la percezione di una cervello in liquefazione, o quantomeno di poterne comprendere immediatamente il linguaggio.

«L’uovo si era avvicinato a terra. Il sole calante, rifrangendosi sulla carenatura, spandeva riflessi argento. Scartai la penultima gomma del pacchetto. Rialzando lo sguardo avevo l’impressione che l’uovo mi tenesse d’occhio e sorridesse nel sorprendermi ad allentare la tensione con cui le mie cavità oculari guizzavano verso la sua porzione di cielo. Alzai la mano. L’uovo brillò»


A venticinque anni, Luca Bernardi ha avuto il coraggio di regalarsi il romanzo che in tanti, alla sua età, hanno solamente sognato di scrivere. Lo ha fatto mettendo al centro del suo lavoro uno stile personalissimo e una ricerca affatto scontata sulla lingua. Al di là dei suoi aspetti più significativi -e più particolari- “Medusa” è comunque una libro godibile, profondo e capace persino di strappare qualche sorriso al lettore.

“Quello lì, dico al pazzo rapato indicando l’infermiere massiccio, ha appena detto a tua madre venuta in visita che non la vuoi vedere. Il pazzo rapato grida e si volta verso l’infermiere. L’ha mandata via, dico, le ha detto che o si spoglia oppure se lo sogna di rivederti. Il pazzo rapato si avventa sull’infermiere massiccio. L’infermiera indietreggia. Il pazzo bolso urla. L’omicidio è lo specchio del coito, dice il macilento. Il Ginger fischia. L’uovo scende di scatto. Loriz piega le ginocchia. Il pazzo rapato molla una testata in faccia all’infermiere massiccio. L’infermiere urla. Loriz si getta sul pazzo rapato e lo riempie di cazzotti. Il macilento si butta su di lui. Il bolso grida. Tra le siepi i pazzi ronzano ovunque. Due si accapigliano tra loro. La grassoccia telefona per chiedere rinforzi. L’infermiere tozzo abbassa il bastone di gomma azzurra di Scardanelli sulla testa del pazzo macilento. Ecco che Scardanelli si alza in piedi. Mi guarda. Loriz immobilizza a terra il pazzo rapato e continua a menarlo. Il Prozzio si gratta il naso. Il bolso si gira su se stesso. La grassoccia ritorna con rinforzi. Scardanelli mi guarda”. 

Tra riflessioni disincantante, scazzottate e scorribande notturne, un argomento che sembra giocare un ruolo decisivo nel racconto è quello dell’aborto. E’ anche il figlio che il protagonista e la sua fidanzata decidono di non avere che, in qualche modo, alimenta la vicenda fino alle ultime, concitate fasi della storia.

“Abortiamo, bisticciamo sulla spesa, su come lei non possa esimersi dal punzecchiare il parmigiano appena scartato. Un venerdì mangio lasagne e lei sbucciando una mela piange. Le chiedo cosa c’è ma lei continua a piangere. Sarebbe nato adesso, dice infilando il pigiama. Dopo cinque minuti dorme nel mio letto e io digrigno con un’increspatura al fianco sinistro. Carponi tasto il polso, materasso, giugulare, arraffo i calzini perché ho i piedi gelati. Il telegiornale strombazza. Il formicolio diventa un tremito. Tento di respirare piano, le gambe scalpitano, le orbite pulsano. Ho un uovo nell’esofago, una di quelle palline antistress con cui da bambino attentavo ai vasi, solo con uno sforzo tremendo riesco a sollevare il torace appena quanto basta a sgusciare una particola d’aria. L’indomani mattina torno a Bolzano”. 

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