“…è vivere che è tremendo, uno attraversa un giorno dopo l’altro e in un cantuccino della sua testa continua a dirsi: questa è la vita, boh, qualcosa succederà, la tal cosa si sistemerà, la talaltra prima o poi andrà a posto, quel che è certo è che per ora sono uno che vive e intanto quelle cose, che poi non sono mai come uno se le aspettava, sono solo dei ricordi, sì, poniamo che tu ti ripari il tetto della casa: tu credi di star facendo quella riparazione, in realtà stai solo costruendo un ricordo, è solo questa la vita, una continua fabbrica di ricordi, il che vuol dire che anche da vivi non facciamo altro che morire, ragiona, quando noi ci ricordiamo di noi stessi in genere ci commuoviamo, no? ci inteneriamo, diventiamo malinconici, e perché? Perché in quel momento è come se pensassimo ai nostri cari defunti, al nostro papà o al nostro nonno, perché non ci siamo più, quei noi là, solo che siccome i vivi non smettono mai di guardare avanti si dimenticano della verità, e la verità è dietro, è il dietro la nostra verità, sono tutte quelle piccole morti di noi stessi che ci hanno accompagnato fin dalla nascita, e questo lo capisci veramente solo una volta, quando rivedi la tua vita tutt’insieme e tutt’intera, perché non puoi più guardare avanti, capisci? c’è solo il dietro, è come se il dietro, dopo averti seguito di nascosto nel bosco, come un assassino, ti raggiungesse con una corsettina e si presentasse, lo guardi e vedi che ha la tua faccia, capisci? capisci? Ecco, nel brevissimo istante di quel tuffo io ho capito che nella vita l’unica cosa a succedere è la morte”.
Nicoletta Bianconi – Qualcosa di giallo. Vita di un rappresentante di moquette

Un libro fuori misura, un piccolo saggio di buona e originale scrittura: uno di quei racconti “intimi” che hanno il dono di appassionare il lettore dal primo all’ultimo rigo.
Io sono l’isola
“A mano a mano che girovagava, Maitland scoprì che il suo corpo e il dolore nella gamba gli importavano sempre meno. Incominciò a muovere quel guscio, dimenticando dapprima l’arto offeso e poi tutte e due le gambe, cancellando qualsiasi coscienza dei bruciori al petto e al diaframma. Continue reading
I giorni tuoi perduti
Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernst Kazirra, rincasando, avvistò da lontano un uomo che con una cassa sulle spalle usciva da una porticina secondaria del muro di cinta, e caricava la cassa su di un camion. Non fece in tempo a raggiungerlo prima che fosse partito. Allora lo inseguì in auto. E il camion fece una lunga strada, fino all’estrema periferia della città, fermandosi sul ciglio di un vallone. Kazirra scese dall’auto e andò a vedere. Continue reading
Mille e una morte
“Io, lo giuro, non ho paura della morte, ma l’agonia sì, mi fa paura, specialmente quando dura anni e ti mozza il lavoro, e tu stai male, avresti bisogno di riposarti e di guarire, e invece continuano a tafanarti i padroni di casa, i letturisti della luce, Mara con la comunione e le palline del bimbo, le tasse, i rappresentanti di commercio, i datori di lavoro, i medici, i farmacisti, le cambiali, gli esattori dell’abbigliamento. L’agonia continua fino a che a tutti costoro sembri che ci sia il modo di levarti di corpo qualcosa ancora e fino a che tu abbia la forza di continuare. Poi lasciano che tu muoia”.
Luciano Bianciardi, La vita agra
Proibito esistere senza documenti
<<Una questione? Quale? … Ah, sì, è una cosa molto semplice. Mi serve un documento, Filipp Filippovic.>>
Filipp Filippovic trasalì. <<Ehm… Diavolo… Un documento! Effettivamente… Ehm… però forse si può fare anche senza…>> il tono della sua voce era incerto e afflitto.
<<Ma scusate,>> rispose reciso il tipo <<come si può farne a meno? Questa poi… Eppure, scusate, lo sapete anche voi che a uno uomo privo di documenti è severamente proibito di esistere. Innanzitutto il Domkon!>>
Michail Bulgakov, Cuore di cane
Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo
“Tunda andava al porto quando le navi arrivavano. Pur sapendo che erano i soliti vecchi battelli locali, che al più trasportavano gli impiegati del paese e qualche raro mercante forestiero di caviale, tuttavia seguitava a immaginare che quelle navi venissero da mari sconosciuti. Le navi sono i soli mezzi di trasporto a cui si attribuiscono tutti i viaggi avventurosi. Ogni comune imbarcazione, ogni comoda zattera, ogni misera barca da pesca potrebbe aver assaggiato l’acqua di tutti i mari. Per un uomo che sta su una sponda tutti i mari sono uguali. Ogni piccola onda è sorella di altre più grandi e pericolose”.
La stiva e l’abisso – Il mare che non si vede
“Ma ciò che mi ha più impressionato è l’aver appreso che, dall’interno della stiva, e ancor più della sentina, non solo si percepisce ravvicinato e vivissimo il rumore del corpo e dei cavi che sfregano contro la carena, ma si possono anche sentire le grida subacquee del suppliziato. Sì, perché quel viaggio nel buio e nel gelo io me lo sono sempre immaginato muto, come una vicenda di rassegnazione, o come l’ingresso timoroso e un po’ stupefatto in un solenne mistero: il mistero del mare che non si vede, del mare nascosto dalla mole nera della nave. Invece ora vengo a sapere di una lotta, di una disperata resistenza al mistero, cioè di un attaccamento del condannato alla propria terrigna, legnosa, carnale umanità: e il cambiamento auspicato, allora? Quell’evoluzione profonda, intima (oserei dire quell’alterazione chimica) di uno spirito proteso alla conoscenza del proprio spavento? Un urlo solo, è evidente, la nega”.
Michele Mari, La stiva e l’abisso, Einaudi
Quant’è che vi danno, per esibirvi sulle funi?
‘No, non mi piaceva lavorare. Avrei preferito poltrire e pensare a tutte le belle cose che si possono fare. Non mi piace lavorare – non piace a nessuno – ma mi piace ciò che nel lavoro è insito – la possibilità di trovare te stesso. La tua realtà – per te, non per gli altri – ciò che nessun altro uomo potrà mai sapere. Loro vedono soltanto l’apparenza e non sono mai in grado di capire che cosa realmente significhi’ […] Continue reading
Così, mi sa che è la mia vita
Byron ancora si domandava perché l’altro rimaneva a Jefferson, quasi in vista e a portata d’orecchio della chiesa che lo aveva ripudiato ed espulso. Una sera Byron glielo domandò. <<Tu perché passi i tuoi sabati pomeriggio a lavorare all’officina mentre gli altri operai si divertono in città?>> disse Hightower. <<Non lo so>> disse Byron. <<Così, mi sa che è la mia vita>>. <<E anch’io, mi sa che è la mia vita>> disse l’altro. ‘Ma adesso so perché è così’ pensa Byron. ‘E’ perché uno ha più paura dei guai che potrebbe avere che di quelli che ha già. Si aggrappa ai guai ai quali è abituato piuttosto che rischiare di cambiare. Un uomo può parlare di come gli piacerebbe sfuggire alle persone vive. Ma sono i morti quelli che gli fanno più male. Sono i morti che se ne stanno belli tranquilli in un posto e non cercano di trattenerlo, quelli a cui non può sfuggire’.