Letture

T.H. White – L’astore: il falconiere e il suo aguzzino. Una storia d’amore

“White è mosso dall’esigenza di raccontare “il conflitto”, sia esso quello tra due amanti, tra gli uomini o di un’anima tormentata”.

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T.H. White – L’astore – Adelphi

“Una storia d’amore, una farsa, un libro di storia medievale, una riflessione sulla violenza, il desiderio, il controllo di sé e il controllo degli altri, un saggio di storia naturale, uno sfoggio di cultura shakespeariana e una tragedia”.  

 Livia Manera, Corriere della sera


di CasaLibri

Scritto in forma di diario, “L’astore” -Adelphi- narra la storia di un uomo alle prese con l’educazione di un uccello selvaggio e indomabile. Il testo, sul cui sfondo aleggia lo spettro della seconda guerra mondiale, integra parti tecniche e divulgative, profonde riflessioni sul rapporto addestratore-animale e passaggi densi di considerazioni sulla vita e la civiltà occidentale. L’insieme, con tutti i limiti di un libricino pensato per descrive l’addestramento del falco Gos  -“un essere capace di progressi quotidiani “tanto graduali e sottili” che “solo il padrone, normalmente, era in grado di cogliere”- è tutt’altro che noioso.  Il lettore, anche il meno interessato a scoprire come si ammaestra un rapace, non potrà che apprezzare un racconto singolare e dagli sviluppi inaspettati.

“Gli astori erano Amleto, erano Ludovico di Baviera. Deliranti discendenti di deliranti antenati, nel pieno delle forze erano più che a metà folli”


L’astore: il falconiere e il suo aguzzino. Una storia d’amore.

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T.H. White – L’astore – illustrazione

“L’astore” è soprattutto una terribile e normalissima storia d’amore tra un uomo e un uccello. E se è vero che tutte le coppie sono assortite da una vittima e da un carnefice, distinguere l’uno dall’altro, nel nostro caso, non è cosa facile. Quando, dopo diverse notti di veglia forzata, il rapace accetta placidamente di restarsene posato sul guanto da falconiere di White, qualsiasi gerarchia tra l’uomo e l’animale è ormai superata. A quel punto del racconto (e del rapporto), al di là di ogni evidenza, stabilire chi dei due tenga davvero in pugno l’altro è ormai impossibile. Se l’autore, seguendo alla lettera i consigli di alcuni vecchi manuali, arriva a privare del sonno il suo amato Gos pur di “spezzarne” la resistenza; o a controllarne l’alimentazione, affamandolo, per comandarne i movimenti, sarà il dispotico astore, alla fine, a governare il tempo e le energie del suo padrone.

“Ero diventato per metà uccello, investendo il mio amore, il mio impegno e le mie risorse nel suo futuro, col risultato di farne altrettanti ostaggi della sorte, non meno pazzamente di quanto avvenga nel matrimonio e nelle cure della famiglia. Se il falco fosse morto, quasi tutto ciò che ero sarebbe morto con lui”. 

Certo, gli animalisti potrebbero osservare che il libro assomiglia più al diario di un torturatore professionista che non a quello di un paziente addestratore; e chiunque potrebbero obiettare che l’amore, quello sano, è altra cosa rispetto al desiderio di possesso. White, che secondo i suoi biografi sarebbe stato un sadomasochista, non ignora la questione e, anche se superficialmente, pare interrogarsi sul punto. Gos, ammette il narratore, “meritava di essere libero” eppure, prosegue subito dopo col piglio di un bambino capriccioso o di un amante appassionato, “continuavo a volerlo con me”. Soltanto un rigo più in basso, citando William Blake, aggiunge: “L’amore cerca solo il suo piacere per legare altrui al suo godere,/gioisce se un altro perde la sua pace/e crea un inferno a dispetto del cielo”.


L’astore: lontano dal mondo, dentro il conflitto

Restarsene in disparte dal mondo, osservare la natura e vivere del proprio lavoro.  Le aspirazioni di White, nel 1937, sembrano essere soprattutto queste. E’ facile immaginare che, all’epoca, nelle sue intenzioni ci fosse innanzi tutto quella di replicare con “L’astore” il discreto successo ottenuto con “England Have My Bones“, dato alle stampe appena un anno prima.

“Un qualche libro dovevo proprio scriverlo perché tutto il mio patrimonio ammontava a un centinaio di sterline, e il cottage del guardacaccia mi costava cinque scellini la settimana. Tanto valeva scrivere di qualcosa che mi interessava”.

In sostanza, per White, si trattava di trovare qualcosa che desiderava “conoscere” e “imparare” per poi “scriverne”. L’esito della ricerca, sperava, gli avrebbe permesso di “fare denaro con qualcosa che amava”, senza dover lasciare la sua torre d’avorio nella campagna del Buckinghamshire.

“I miei amici intellettuali di quegli anni, tra le due guerre, usavano dirmi: <<Perché diavolo sprechi i tuoi talenti nutrendo uccelli selvatici con conigli morti?>>. Era forse un lavoro da uomo, oggigiorno? Insistevano che ero un tipo intelligente, e avevo il dovere di essere serio. <<Alle armi!>> gridavano. <<Abbasso i fascisti, e viva il Popolo!>>. Insomma, come poi abbiamo visto, tutti dovevano correre a imbracciare le armi e a uccidere i loro simili. Non serviva a niente dirgli che preferivo sparare ai conigli piuttosto che agli essere umani”.

Il progetto di White non andò in porto: “L’astore” gli valse una scarsissima fortuna, e per giunta “non era affatto il libro di un falconiere*” o di un cacciatore di conigli. Nel testo, intriso di una buona dose di pessimismo, sono ricorrenti i riferimenti alla seconda guerra mondiale e ai vacillanti valori del mondo occidentale. Temi che, di fatto, pur se intimamente connessi all’attività di addestratore descritta da White, poco hanno a che vedere con le pagine di un “manuale” per ammaestratori di uccelli da preda.

“La triste verità è che vivevamo ancora nel Medioevo. Il <<New Statesman>>, con la sua credenza nella logica, nell’esistenza del <<bene e del male>>, e nel mondo delle idee espresse mediante frasi con un soggetto e un predicato, era ahimè una presenza puramente platonica. Hitler e Mussolini, Gos e l’irrimediabile, malvagio Gheppio, le foche che mangiano i salmoni che mangiano le aringhe che mangiano il plancton che mangia qualcos’altro: tutti sanno che Dio ci ha dato una legge secondo quale solo una cosa è giusta: l’energia che si manifesta nell’uccidere per vivere e nel procreare”.

Sotto lo sguardo dello scrittore praticamente ogni cosa finisce per trasformarsi in metafora o in un prezioso spunto di riflessione. I piccioni, oltre che cibo per i rapaci, sono i “cittadini” meglio “disposti verso i principi della società delle Nazioni”; “grigi quaccheri perennemente in viaggio (…) attraverso deserti pullulanti di selvaggi e cannibali, che si amano l’un l’altro e praticano l’oculata politica della fuga”. La ferrea dieta imposta al falco Gos rappresenta invece per White l’occasione adatta per lanciarsi in una breve divagazione socio-politica sul controllo delle masse.

“Ero intimamente persuaso della verità del primo comandamento del decalogo dell’asotriere, che in sole tre parole riassumeva l’alfa e l’omega della falconeria: Disciplina il gozzo. (…) Per poter governare bisognava essere avari con il ventre. Una verità che i grandi capi politici avevano sempre saputo riguardo ai miei consimili delle classi inferiori. Con novanta sterline l’anno la gente che viveva nei cottage operai si trovava in una terra di confine, felicemente al margine: aveva fame quel tanto che bastava per tenersi alla larga da scelte azzardate. Godevamo di un’ottima salute, ma senza niente più del necessario; non ribelli, non troppo sicuri di noi stessi. Ci mantenevano efficienti e mansueti. Così funzionava il buon esercizio del dominio”.

A contatto con la sensibilità dell’autore, persino un banale strumento del mestiere come la “filagna” (la corda con cui l’addestratore testa l’obbedienza del falco prima di lasciarlo volare liberamente) finisce per trasformarsi in un suggestivo elemento retorico.

“Alla fine ci discioglieremo nel nulla, con tutte le nostre filagne aggrovigliate intorno a noi, le nostre difese scardinate e in disfacimento, le nostre capacità sconfitte e in rovina”.

White, a conti fatti, sembra mosso dalla reale esigenza di raccontare “il conflitto”, sia esso quello tra due amanti, tra gli uomini o di un’anima tormentata.


L’astore, White e la balena bianca

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L’astore – T.H. White con due falchi

Che sia stato scritto per necessità o per passione; per convenienza o per una profonda esigenza interiore, “The Goshawk”, con tutta probabilità, non è esattamente il libro che White aveva pensato per raccontare la sua esperienza di astoriere.  Il diario, con i suoi molteplici temi e le sue divagazioni sul destino del mondo, sulla vita e sulla morte, non è il lavoro di uno scrittore qualunque che “aveva cercato, senza riuscirci, di essere un falconiere”. L’opera, per quanto irrisolta, frustrata e per certi versi confusa, è un testo colto e introspettivo; distante anni luce da qualsiasi velleità saggistica. Volendo usare termine di paragone eccellente, si può affermare che “L’astore” sta alla falconeria come “Moby Dick” sta allo studio dei cetacei. In un libro come nell’altro, gli aspetti tecnici e naturalistici hanno un valore puramente narrativo.  La differenza -una su tutte- è che White si confronta con il falco Gos, con il proprio io e con lo spirito del suo tempo, Melville fa della balena bianca la misura del capitano Achab e dell’uomo. A parte questo, ogni altro raffronto tra le due opere è assolutamente superfluo, oltre che ingeneroso. L’ambizione di White, d’altronde, era semplicemente quella di scrivere “qualcosa la cui bellezza durasse nel tempo”. E in fin dei conti, “The Goshawk”, a sessantacinque anni dalla sua prima pubblicazione, è ancora un libro piacevole, sorprendente e persino emozionante.

*Dal punto di vista tecnico, il volume risultò così pieno di errori che lo scrittore, provando vergogna nei confronti dei falconieri,  rifiutò di pubblicarlo fino al 1951.

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